CORPORATE
Società estinta e obbligo per gli ex soci di stipulare il contratto definitivo di vendita
Nel caso in cui una società stipuli un contratto preliminare di vendita immobiliare e successivamente si estingua, nasce l’obbligo per i soci di provvedere alla stipula del definitivo, con ciò realizzandosi a tutti gli effetti una successione degli ex soci nell’obbligo in capo alla società. A tale conclusione giunge una recente sentenza di Cassazione, secondo la quale è legittimo per il promittente acquirente di immobile da una società convenire quest’ultima in giudizio per la stipula del definitivo; e laddove la stessa società si sia estinta, non vi è ostacolo al fatto di obbligare coloro che fossero soci dell’estinta società a dover concludere il definitivo di vendita.
La conclusione della Cassazione è in linea con il principio secondo cui non tutti i rapporti giuridici facenti capo alla società cessano con l’estinzione di quest’ultima: alcuni, come i rapporti pecuniari ma anche, come nel caso di specie, gli obblighi di “facere”), passano in capo agli ex soci. Infine, come precisa ancora la sentenza, i soci subentrano nell’obbligo di stipulare il contratto definitivo di vendita anche se, nel caso di specie, il bilancio finale di liquidazione non abbia disposto nulla a riguardo del contratto preliminare concluso in precedenza dalla società.
Amministratori privi di deleghe: non esclusi da responsabilità
Non costituisce, per gli amministratori privi di deleghe, causa di esenzione da responsabilità il fatto di non aver partecipato a determinate assemblee o riunioni del consiglio di amministrazione: infatti, una volta accettata la carica, la mancata partecipazione alla “vita sociale” della società può essere elemento presuntivo di disinteresse verso le sorti della società e quindi essere individuato come indice di negligenza e colpa non scusabile. Tra l’altro, secondo una recente pronuncia, la responsabilità per gli amministratori privi di deleghe può derivare anche da un difetto di conoscenza per non aver colposamente rilevato eventuali gestioni illecite degli altri amministratori che siano state assunte per ingiustificata assenza dei primi.
Non viene meno neanche per gli amministratori privi di deleghe il principio generale secondo cui tutti gli amministratori sono “tenuti ad agire in modo informato”: devono quindi anch’essi attivarsi affinché siano impedite – o vengano interrotte – situazioni di illecita gestione da parte dell’intero organo amministrativo. Una particolare applicazione di questo principio viene rintracciata dalla giurisprudenza nel caso di chiare irregolarità desumibili dal bilancio, soprattutto in presenza di specifici rilievi da parte del Collegio sindacale: tali ipotesi rappresentano condotte facilmente conoscibili anche da parte di amministratori non operativi con l’utilizzo dell’ordinaria diligenza. La prescrizione dell’azione sociale di responsabilità nei confronti degli amministratori (e quindi anche di quelli privi di deleghe), infine, è di cinque anni ma è sospesa per l’intera durata della carica gestoria in essere.
Modifiche di fatto dell’oggetto sociale e diritto di recesso del socio
Un recente studio del Consiglio nazionale del notariato ha analizzato la situazione nella quale vengano apportate “di fatto” modifiche all’oggetto sociale di una società a responsabilità limitata senza che essere siano state decise sulla base di delibera assembleare.
Di norma il compimento di operazioni che “comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale determinato nell’atto costitutivo” fa scattare a favore dei soci assenti o non consenzienti il diritto di recesso. Se, invece, l’operazione in questione non è deliberata per il tramite dell’assemblea (per qualunque motivo: mancanza di convocazione o mancanza di punto all’ordine del giorno) ma sia decisa dall’amministrazione e attuata per il tramite di dichiarazioni del “rappresentante” della società, non è chiaro se – ferma restando la responsabilità degli amministratori – gli atti che concretizzano la decisione non deliberata in assemblea siano validi ed efficaci per la società e per i terzi, e se i soci possano esercitare il diritto di recesso. La tesi allo stato preferibile – sostenuta anche dalla giurisprudenza di legittimità – configura l’operazione che abbia inciso in modo sostanziale sull’oggetto sociale, effettuata di fatto dagli amministratori, come efficace ma fa salva l’exceptio doli (intendendosi quest’ultima come azione che fa rilevare l’abuso del diritto da parte altrui e paralizza l’azione di questi ultimi). In definitiva, secondo la tesi più accreditata restano fermi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede.
Per quanto riguarda il recesso da parte del socio dissenziente o assente, l’orientamento qui descritto ritiene comunque ammissibile esercitarlo per analogia con quanto previsto in tema di disciplina della società per azioni, nella quale il recesso può essere legittimato anche da un fatto diverso da una deliberazione e quindi anche da un atto negoziale: ciò a condizione che quest’ultimo comporti la modificazione sostanziale dell’oggetto sociale.
RESPONSABILITÀ D.LGS. 231/2001
Decreto 231, modelli organizzativi senza regole specifiche per i dipendenti semplici
Nel contesto della responsabilità 231 non è ammissibile un doppio modello organizzativo, ossia uno per i dipendenti apicali e uno per tutti gli altri soggetti facenti capo alla società. Non è inoltre sostenibile che i criteri per accertare l’idoneità e l’efficace attuazione del modello siano diversi a seconda che il reato presupposto sia stato commesso dai vertici aziendali oppure da sottoposti: i criteri, infatti, sono gli stessi, sebbene “declinati” in maniera differente perché si adattino alla diversa posizione ricoperta dai responsabili dell’illecito. A queste conclusioni è giunta una recente pronuncia del Tribunale di Milano che ha condannato una famosa società multinazionale per mancata adozione di modelli organizzativi utili a rilevare la commissione di determinati reati.
Sul piano giuridico, uno degli snodi cruciali, rispetto al quale è pressoché assente qualsiasi precedente, è costituito dall’interpretazione dell’articolo 7 del decreto 231 del 2001 dedicato ai dipendenti non apicali e al tema dei modelli organizzativi a loro riferiti. Il Tribunale citato ammette la prassi aziendalistica che non riconosce un doppio modello, uno per i vertici e uno per tutti gli altri dipendenti; altrimenti, si precisa, ne deriverebbe una moltiplicazione ingiustificata di modelli organizzativi e regole cautelari.
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