Assemblee “ancora” in videoconferenza
In forza del decreto Milleproroghe 2024 (convertito in Legge n 18 del 23 febbraio, pubblicata conseguentemente in Gazzetta Ufficiale, n. 49/2024) è stata nuovamente introdotta la possibilità di svolgere a distanza le assemblee di società e associazioni, anche quando tale possibilità non sia prevista dallo statuto.
Com’è noto, vigente la normativa emergenziale, era stato consentito dal legislatore (per le società che facciano ricorso allo strumento assembleare per l’approvazione delle delibere) che fosse in ogni caso consentito lo svolgimento dell’assemblea in videoconferenza anche laddove non espressamente previsto dallo statuto. La legge, infatti, richiede che la modalità in videoconferenza sia espressamente prevista nello statuto. Con l’intervento legislativo in oggetto è stata portata fino al 30 aprile 2024 la possibilità di svolgere assemblee in videoconferenza (anche laddove non previsto dallo statuto).
In estrema sintesi, quindi, la novella legislativa consente a società di capitali, cooperative, associazioni e fondazioni:
- lo svolgimento di assemblee in videoconferenza anche laddove quest’ultima modalità non sia stata prevista nello statuto;
- vengono fatte salve, in ogni caso, le modalità necessarie che si ricollegano alla videoconferenza quali, su tutte, la possibilità che il presidente possa individuare i soggetti collegati e accertarne identità e legittimazione a partecipare;
- anche laddove la norma statutaria preveda la videoconferenza ma con necessità che presidente e segretario si trovino nello stesso luogo, è possibile in ogni caso derogare a tale disposizione qualora l’assemblea sia svolta in modalità totalitaria.
Come già fatto presente in altre nostre newsletter sull’argomento si ritiene che le disposizioni legislative (dal periodo emergenziale in avanti) che consentano in ogni caso l’assemblea in videoconferenza possano estendersi anche alle riunioni dei collegi sindacali e consigli di amministrazione.
DDL Capitali: nuovi strumenti ed opportunità per la crescita delle società
È stato approvato dal Senato in via definitiva il 27 febbraio il disegno di legge (già a sua volta approvato dalla Camera con modifiche il 7 febbraio scorso) che contiene interventi a sostegno della competitività dei capitali (c.d. DDL Capitali).
Tale novità normativa prevede profonde modifiche sia in ambito di diritto societario che in tema di investimenti per le società, con il chiaro intento di stimolare la crescita del mercato di capitali italiani: in questo ambito lo scopo del legislatore è quello di migliorare la competitività dei mercati finanziari italiani a supporto della crescita, visto che il nostro Paese risulta ancora sottodimensionato in confronto di altre economie più avanzate di altri Paesi.
Queste le novità principali che segnaliamo con la presente newsletter, riservandoci approfondimenti più specifici con successivi contributi:
- Azioni a voto plurimo – è stata prevista la modifica dell’art. 2351, comma 4, cod. civ., nel senso che le azioni a voto plurimo possono consentire fino a 10 voti (in precedenza il limite massimo era di 3 voti); in questo senso, quindi, le società rientranti nel perimetro della normativa in oggetto potranno scegliere di prevedere l’emissione di azioni a voto plurimo fino ad un massimo di 10 voti; come già sottolineato correttamente da parte della dottrina, l’introduzione di azioni a voto plurimo, in ogni caso, può comportare diritto di recesso per i soci dissenzienti; con riferimento alle società le cui azioni siano ammesse alle negoziazioni sul mercato regolamentato resta fermo, comunque, il principio secondo cui l’introduzione (nello statuto) di azioni a voto plurimo non è possibile dopo la quotazione (ma se già emesse in precedenza, le azioni a voto plurimo si mantengono anche a seguito della quotazione);
- Emissione di obbligazioni – attraverso la modifica dell’articolo 2412 c.c. viene precisato che non si applicano i limiti di emissione previsti dai commi 1 e 2 del citato articolo qualora le obbligazioni vengano sottoscritte esclusivamente da investitori professionali, come consentito dalla relativa delibera di emissione; tali investitori professionali, inoltre, non sono più tenuti a garantire circa la solvenza della società emittente in caso di successivo trasferimento delle medesime obbligazioni ad investitori non professionali;
- Patti parasociali – vengono estesi agli emittenti di azioni ammesse alla negoziazione su sistemi multilaterali di negoziazione gli obblighi pubblicitari previsti all’art. 2341 ter c.c., e quindi hanno l’obbligo di comunicare i patti parasociali stipulati alla società, nonché di dichiararli in apertura di ogni assemblea; inoltre è previsto l’obbligo di trascrivere la dichiarazione nel verbale di assemblea da depositarsi al registro imprese;
- Semplificazione delle procedure di ammissione alla quotazione – il DDL Capitali ha inteso agevolare l’accesso alla quotazione anche in forza dell’eliminazione di alcune condizioni per la medesima;
- Titoli di debito in srl – è stato operato un intervento anche modificando l’art. 2483 c.c., in forza del quale i titoli di debito che siano acquistati esclusivamente da investitori professionali non obbligano questi ultimi a rispondere della solvenza della società nei confronti di acquirenti che non siano investitori professionali, ovvero nei confronti dei soci della medesima società emittente; tale previsione deve essere espressa – ed è richiesto adesso dalla legge – tra le condizioni di emissione e non è consentita deroga.
CORPORATE
Maggioranze per approvazione delibere e clausole antistallo
Uno dei temi maggiormente rilevanti in ambito di società di capitali è quello relativo ai quorum deliberativi in assemblea. In particolare, la Corte di Cassazione (ordinanza n. 5429/2024) recentemente ha affrontato il caso di una clausola statutaria con la quale era stato previsto il voto favorevole di soci che rappresentino almeno il 50% del capitale sociale. La Corte ha richiamato il (necessario) principio maggioritario secondo cui tale clausola può essere considerata valida soltanto se non ci sono voti contrari che rappresentino il restante 50%. Com’è noto, in mancanza di una maggioranza effettiva che possa consentire l’approvazione di una determinata delibera, la società può trovarsi in una situazione di stallo, tale per cui (come spesso accade in società con due soci con partecipazioni paritetiche) non è possibile proseguire, magari per dissidi tra i medesimi soci, nell’attività sociale e nei conseguenti adempimenti richiesti dalla legge. In tal senso, sempre sull’onda della giurisprudenza che si è occupata della questione – invero molto frequente nella prassi – se il dissidio (o contrasto) tra i soci assume carattere continuativo ed insuperabile, si può configurare la causa di scioglimento prevista dalla legge per “impossibilità di funzionamento” o “continuata inattività dell’assemblea”: in definitiva non deve trattarsi di contrasto meramente episodico o momentaneo ma che abbia carattere ormai stabile, volto a rendere la società incapace di assumere decisioni. Contro le situazioni di stallo possono essere previsti specifici rimedi statutari che permettano – in tali casi – di superare lo stallo, dato che, come visto, l’eventuale permanenza dello stallo può portare ad una causa di scioglimento.
Abuso di maggioranza in delibere di società di capitali
Le deliberazioni di assemblea possono essere viziate da comportamenti della maggioranza che, sebbene nell’apparente rispetto della normativa societaria in ambito di deliberazioni assembleari, abbiano il chiaro fine di realizzare non l’interesse sociale ma meramente quello dei soci di maggioranza. Non esiste una norma del codice civile che possa essere richiamata in tal senso ma si tratta di un’evoluzione giurisprudenziale che si è formata nel tempo. In particolare, gli ambiti dove, normalmente, può emergere un abuso di maggioranza sono quelli dell’aumento di capitale, della mancata distribuzione di utili e del compenso amministratori: in questi tre casi, infatti, la maggioranza può “abusare” di una delibera per realizzare fini ad essa riconducibili e non giustificabili nell’ottica del prevalente interesse sociale. L’aumento di capitale, ad esempio, può essere utilizzato per diluire la partecipazione sociale dei soci di minoranza, senza che l’aumento sia realmente giustificato nell’ottica dell’operatività della società e di particolari esigenze concrete; così come, in caso di distribuzione di utili, la decisione della maggioranza di accantonamento di utili, non giustificata da esigenze di patrimonializzazione della società (anche in questo caso per particolari esigenze concrete), può comportare un chiaro abuso a danno dei soci di minoranza, i quali si vedono privati di tali importi. Il contenzioso in materia di abuso di maggioranza è sempre delicato e pone l’onere della prova dell’abuso a carico dei soci di minoranza (i quali, quindi, sono tenuti a dimostrare che la decisione è stata assunta allo scopo di danneggiarli e, allo stesso tempo, senza che essa sia giustificabile nell’ottica dell’interesse sociale). Recentemente una pronuncia della giurisprudenza (in tema di aumento di capitale), peraltro, ha sostenuto che, ove i soci di minoranza abbiano la capacità economica di sottoscrivere l’aumento, un loro eventuale rifiuto sarebbe frutto di una libera scelta, e dunque non potrebbe configurare un abuso di maggioranza. Come è normale dalla sintesi qui prodotta, si tratta di valutazioni che necessitano di specifico esame caso per caso.
RESPONSABILITÀ D.LGS. 231/2001
Modello organizzativo e sua adeguatezza
La sola configurabilità in capo ai soggetti apicali di una società della responsabilità penale per uno dei “reati-presupposto” non è sufficiente per affermare la responsabilità dell’ente collettivo ai sensi del DLgs. 231/2001. É stato da molti criticato, fin dagli albori dell’entrata in vigore della normativa in materia, il presunto automatismo tra la commissione di un reato in azienda e l’inadeguatezza del modello organizzativo nel prevenirlo, presunzione spesso rintracciata in alcune pronunce giurisprudenziali. Recentemente in giurisprudenza, tuttavia, si è registrato un superamento di tale presunzione: è stato, infatti, precisato che nel vado di idoneità del modello organizzativo, non possa essere elemento decisivo il fatto che un reato sia stato effettivamente consumato; invece, qualora un reato venga realizzato perché il modello di organizzazione si sia rivelato incapace di prevenirne la commissione, allora la clausola di esonero della responsabilità dell’ente (art. 6 del DLgs. 231/2001) non potrebbe mai trovare applicazione. La commissione del reato, pertanto, non è elemento esaustivo per dimostrare che il modello non sia idoneo: il rischio reato viene ritenuto accettabile quando il sistema di prevenzione non possa essere aggirato se non fraudolentemente. Il legislatore, infatti, con la previsione della normativa in oggetto, ha inteso chiaramente evitare di sanzionare l’ente secondo un criterio di “responsabilità oggettiva”. In forza delle considerazioni in oggetto, quindi, viene a cadere il presunto “automatismo” tra commissione del reato e consequenziale (necessariamente) inidoneità del modello ma è necessaria una valutazione in concreto sulla concreta idoneità del modello a scopo preventivo (dimostrando quindi l’opera della società di prevenire in concreto la commissione di reati ai sensi della normativa in oggetto).