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Licenziamento per mancato superamento del periodo di prova: non si applicano i termini di decadenza previsti per le altre ipotesi di licenziamento (Cassazione n. 9282/2025) 

Un lavoratore ha impugnato il licenziamento per mancato superamento del periodo di prova intimatogli dalla datrice di lavoro. 

La domanda è stata rigettata dalla Corte d’Appello competente per decadenza dai termini di cui all’art. 6 della L. n. 604/1966 in quanto il lavoratore – pur avendo impugnato tempestivamente in via stragiudiziale il provvedimento espulsivo richiedendo, contestualmente, il tentativo di conciliazione – non aveva proposto, in seguito al rifiuto del datore di lavoro al tentativo di conciliazione, ricorso in sede giudiziale nel termine di 60 giorni previsto dalla norma. 

I giudici di legittimità, ribaltando la pronuncia di secondo grado, hanno chiarito che l’ambito di applicazione del regime decadenziale di cui all’art. 6 della L. n. 604/1966 è circoscritto alle ipotesi espressamente elencate all’art. 32 della L. n.  183/2010, tra cui non è ricompreso il licenziamento per mancato superamento del periodo di prova se non “dal momento in cui l’assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, quando sono decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro”. 

Ed infatti, la funzione del licenziamento per mancato superamento del periodo di prova, è ricollegata alla possibilità, per datore di lavoro e lavoratore, di valutare la reciproca convenienza del rapporto di lavoro, motivo per cui la disciplina in caso di recesso deve ritenersi differente da quella prevista per i licenziamenti ordinari. 

In tale ipotesi, pertanto, non possono ritenersi applicabili i termini di decadenza di cui all’art. 6 della L. n. 604/1966, dovendo invece trovare applicazione il termine di prescrizione ordinario di 5 anni. 

Non è valida la conciliazione in sede sindacale se tale ipotesi non è prevista dal CCNL (Cassazione n. 10065/2025) 

Un lavoratore ha agito giudizialmente nei confronti della datrice di lavoro chiedendo l’accertamento della nullità del verbale di conciliazione con cui era stata concordata la riduzione della retribuzione chiedendo, conseguentemente, il pagamento delle differenze retributive.  

La Corte d’Appello, in accoglimento di tale domanda, ha dichiarato la nullità della conciliazione, in quanto, seppur alla presenza del rappresentante sindacale, la stessa era stata sottoscritta presso la sede aziendale.  

La Suprema Corte, in conformità con quanto statuito dal giudice di secondo grado, ha rilevato che la validità della conciliazione è data, non solo, dall’effettiva assistenza da parte del sindacato, bensì, anche, dal luogo in cui avviene la sottoscrizione del verbale di conciliazione, entrambi elementi necessari al fine di garantire la libera determinazione del lavoratore rispetto alle rinunce formulate oltre che l’assenza di qualsivoglia condizionamento. 

 La presenza del rappresentante sindacale, pertanto, da sola non è elemento sufficiente a garantire la sussistenza di tali presupposti, con la conseguenza che il verbale di conciliazione deve, correttamente, ritenersi nullo. Alla luce di quanto sopra, in caso di sottoscrizione di un verbale di conciliazione tra società e lavoratore, è necessario che l’assistenza sindacale sia effettiva e che la firma avvenga presso la sede sindacale. 

 

Licenziamento per mancato superamento del periodo di prova: invalido in caso di assegnazione a mansioni diverse (Tribunale di Messina, n. 591/2025) 

Una lavoratrice ha impugnato il licenziamento per mancato superamento del periodo di prova irrogatele, sostenendo di non essere stata adibita alle mansioni di salumiera previste nel contratto di assunzione, bensì a quelle di addetta alla cassa.  

Il giudice di primo grado, all’esito della fase istruttoria, ha statuito che nel caso di specie non poteva essere dichiarato un esito negativo della prova, posto che le modalità con cui il periodo di prova medesimo era stato esperito non risultavano idonee ad accertare le capacità di lavoro della dipendente.  

Non solo, nel determinare le conseguenze nel caso di specie, il Tribunale ha avuto modo di distinguere tra vizi genetici e vizi funzionali del periodo di prova. I primi, si concretizzano nell’assenza di uno dei requisiti fondamentali del periodo di prova come, ad esempio, la forma scritta, e determinato la nullità del periodo di prova con la conseguenza che il patto di prova è come se non fosse mai stato sottoscritto e il licenziamento soggiace alla disciplina ordinaria dei licenziamenti individuali. I secondi, invece, pur non invalidando la clausola relativa al periodo di prova, ineriscono al non corretto adempimento delle previsioni di cui al patto di prova medesimo, come avvenuto nel caso di specie in cui la lavoratrice è stata adibita a mansioni diverse rispetto a quelle previste nel contratto di assunzione. In quest’ultimo caso, conseguenza è il diritto della lavoratrice a proseguire, ove possibile, il periodo di prova, ovvero a ricevere un ristoro per il pregiudizio subito.  Pertanto, è fondamentale che al contratto di assunzione sia allegata una job description sufficientemente dettagliata e che il periodo di prova verta solo ed esclusivamente sulle mansioni ivi indicate. 

Annullabile il contratto di apprendistato in mancanza di formazione (Cassazione, n. 6990/2025) 

Una lavoratrice ha impugnato il contratto di apprendistato sottoscritto con la datrice di lavoro, sostenendo che non fosse stata svolta la formazione prevista nello stesso. 

I giudici di legittimità hanno avuto modo di chiarire che il contratto di apprendistato è un contratto a causa mista, la cui peculiarità è data dal fatto che il lavoratore fornisce la propria prestazione lavorativa a fronte dell’obbligo del datore di lavoro di corrispondergli la retribuzione, oltre che di fornirgli la formazione utile ad acquisire la qualifica per cui è stato assunto. 

Da quanto sopra deriva che, la mancanza della formazione comporta la nullità del contratto di apprendistato per mancanza di causa, con conseguente trasformazione in contratto a tempo indeterminato a far data dall’avvio del rapporto di lavoro, con tutte le conseguenze di legge e di contratto. 

 

Non è possibile erogare mensilmente in busta paga il rateo di TFR (Ispettorato del Lavoro, nota n. 616 del 3 aprile 2025) 

Con la nota n. 616 del 3 aprile 2025, l’Ispettorato del lavoro ha esaminato la dibattuta tematica inerente alla possibilità di anticipare l’importo maturato a titolo di TFR mensilmente in busta paga ai dipendenti. 

In particolare, l’Ispettorato del lavoro ha chiarito che, al di fuori delle possibilità di anticipazione del TFR previste dall’art. 2120 c.c., il TFR deve essere corrisposto al lavoratore soltanto al momento della cessazione del rapporto di lavoro. 

Ciò, in quanto il TFR rappresenta una somma accumulata mensilmente dal datore di lavoro, per conto del lavoratore, con la finalità di garantire a quest’ultimo un supporto economico alla fine del rapporto lavorativo. 

Non solo, la pattuizione collettiva o individuale, che prevede condizioni di miglior favore per l’anticipazione del TFR, non può consistere in un mero automatico trasferimento dell’importo maturato mensilmente a tale titolo dal lavoratore in busta paga. 

Tale prassi, infatti, appare all’evidenza in contrasto con la finalità per cui il TFR viene accantonato, e cioè quella di sostentamento del lavoratore al momento della fine del rapporto di lavoro, diventando a tutti gli effetti parte integrante della retribuzione con conseguenti ricadute anche sul piano contributivo. 

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