NOVITA’:
Misure per il sostegno alla liquidità delle imprese, la “Garanzia SACE”
Il decreto Sostegni-bis, intervenendo sia sulla garanzia erogata dal Fondo PMI che sulla Garanzia Italia erogata da SACE (ex art. 13), ha disposto:
- la proroga, fino al 31 dicembre 2021, del termine per richiedere la Garanzia SACE;
- la possibilità di allungare, da 6 a 8 anni, i tempi di restituzione dei finanziamenti garantiti (si precisa che inizialmente era stato proposto di innalzare la durata massima a 10 anni, tuttavia in data 29 giugno 2021 la Commissione Europea – autorizzando la misura – ha però limitato la durata ad 8 anni);
- la riduzione dal 30% al 15% del vincolo a mantenere, qualora la classe di rating attribuita al finanziamento sia inferiore a BBB-, una quota del valore dell’emissione per l’intera durata della Garanzia SACE;
- l’abbassamento, a partire dal 1° luglio, al 90% della copertura per finanziamenti di importo inferiore a 30.000,00 euro, prima garantiti al 100%, per la garanzia concessa dal Fondo PMI, nonché il ripristino dell’80% come percentuale massima di garanzia in tutti gli altri casi, nell’ottica di ritornare progressivamente alle modalità di funzionamento del Fondo PMI precedenti all’emergenza sanitaria;
- la possibilità, anche per gli enti non commerciali e del Terzo settore, il cui accesso era stato escluso in occasione del primo rinnovo della misura, di accedere alla Garanzia Italia per finanziamenti di importo inferiore a 30.000 euro.
Da ultimo, è stato previsto che le Small Mid Cap non possano più accedere alle garanzie di cui al Fondo Garanzia PMI, ma potranno richiedere solo la Garanzia SACE. Tuttavia, è stato deciso di rendere i due strumenti equivalenti per tale tipologia d’imprese, per cui solo per le Small Mid Cap è stato eliminato il divieto della distribuzione dei dividendi e di riacquisto delle partecipazioni proprie come condizione per il rilascio della Garanzia SACE.
Delega al Governo per la modifica della normativa in materia di Whistleblowing
Il 19 aprile scorso il Senato ha approvato la Legge di delegazione europea 2019/2020, nell’ambito della quale, inter alia, il Parlamento ha stabilito i principi e i criteri direttivi cui il Governo dovrà attenersi nel dare attuazione alla direttiva (UE) 2019/1937 in materia di Whistleblowing. A riguardo, si segnala che l’ambito di applicazione è più ampio rispetto a quanto previsto dal D. Lgs. 231/2001, posto che la direttiva riguarda la protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell’Unione, ivi comprese a titolo esemplificativo, violazioni in materia di concorrenza e di aiuti di Stato. In particolare, la Legge di delegazione prevede che l’attuazione della direttiva assicuri un alto grado di protezione, oltre che ai soggetti segnalanti, ai loro facilitatori e terzi connessi che potrebbero rischiare ritorsioni in un contesto lavorativo, nonché ai soggetti giuridici per cui le persone segnalanti lavorano o a cui sono altrimenti connesse in un contesto lavorativo.
CORPORATE:
Revocabile la rinuncia al diritto di opzione su quote di S.r.l.
Con una recente sentenza il Tribunale di Roma ha specificato che nelle S.r.l. la revoca della rinuncia al diritto di opzione è consentita quando l’opzione costituisca un bene in sé, dotato di autonomo valore di mercato. A riguardo, il giudice romano ricorda, in primo luogo, come uno dei presupposti dell’azione revocatoria (ordinaria o fallimentare) sia costituito dal c.d. eventus damni, dovendo l’atto revocando aver determinato o aggravato il pericolo di incapienza del debitore. Tale caratteristica, peraltro, non può essere data per scontata nelle S.r.l.; in tale ambito, infatti, diversamente dal caso della S.p.A. – dove, alla luce delle previsioni dell’art. 2441 c.c., il diritto di opzione presenterebbe un indubbio valore economico in sé – vige un’impronta tendenzialmente personalistica. Per cui, il diritto di opzione non ha automaticamente un valore patrimoniale autonomo e di fatto potrebbe anche non averne alcuno, in quanto tale valore finisce per essere strettamente correlato alla disciplina statutaria relativa alla circolazione delle quote, che può essere vietata o sottoposta a vincoli più o meno rigorosi che incidono sulla trasferibilità ai soci e ai terzi del diritto di opzione. L’onere di provare tale valore economico ricade sul creditore che agisce in revocatoria. Pertanto, avendosi riguardo all’esistenza di un concreto eventus damni che giustifichi l’iniziativa processuale assunta, la rilevanza quantitativa e qualitativa dell’atto di disposizione deve essere provata dal creditore agente; mentre è onere del debitore, per sottrarsi agli effetti dell’azione revocatoria, provare che il proprio patrimonio residuo sia tale da soddisfare ampiamente le ragioni del creditore.
Incarichi gestori e “esterni” degli amministratori di società
È noto – poiché ribadito da svariati precedenti giurisprudenziali – che, se un amministratore di società viene chiamato a svolgere attività estranee ed ulteriori rispetto a quelle strettamente gestorie ed amministrative, matura il diritto ad una retribuzione speciale, aggiuntiva rispetto a quella eventualmente liquidatagli per la carica assunta. Tuttavia, tale linea di demarcazione è agevole solo in via teorica, posto che nella prassi non è affatto semplice tracciare i confini dell’attività propriamente “gestoria”. A riguardo, secondo una parte della giurisprudenza dovrebbe trattarsi di attività effettivamente diverse da quelle dovute in forza dell’incarico gestorio, valutato alla luce dell’oggetto sociale. In altri termini, una retribuzione ulteriore sarebbe dovuta solo se la prestazione dell’amministratore, avuto riguardo all’oggetto della società, non rientri fra i compiti “istituzionalmente connessi alla sua carica”. Tale ricostruzione non appare pienamente condivisibile, perché potenzialmente in grado di qualificare come attività gestoria anche operatività del tutto estranee (tutto, infatti, potrebbe dirsi funzionale al perseguimento dell’oggetto sociale). Secondo altra parte della giurisprudenza sarebbero “estranee” all’amministrazione soltanto le attività che abbiano carattere episodico e occasionale e, invece, inerenti all’amministrazione quelle che abbiano carattere regolare e continuativo rispetto al perseguimento dell’oggetto sociale. Tale distinzione appare discutibile, posto che vi sono atti che, pur avendo carattere episodico, sono certamente riconducibili all’attività gestoria (si pensi, ad esempio, ad un progetto di fusione) e altri atti che, pur avendo natura continuativa, nulla hanno a che fare con le competenze specifiche del CdA (si pensi ad un amministratore avvocato che curi il recupero crediti della società). Allo stesso modo risulta fortemente opinabile anche riferirsi alle specifiche qualità professionali e personali del singolo soggetto quale ragione della nomina ad amministratore, come si deduce da altre pronunce ancora. In sostanza, circa tale distinzione regna grande incertezza e, caso per caso, la decisione sarà rimessa all’interpretazione del giudicante.
Astensione da calibrare per l’amministratore
Ai sensi dell’art. 2388 comma 4 c.c., le deliberazioni del CdA che non sono prese in conformità della legge o dello statuto possono essere impugnate solo dal collegio sindacale e dagli amministratori “assenti o dissenzienti” entro novanta giorni dalla data della deliberazione. Ai sensi dell’art. 2377 comma 2 c.c., invece, le deliberazioni assembleari che non sono prese in conformità della legge o dello statuto possono essere impugnate dai soci assenti, dissenzienti o “astenuti”, dagli amministratori, dal consiglio di sorveglianza e dal collegio sindacale. Secondo illustri precedenti del Tribunale di Milano, dunque, l’amministratore che si astiene dalla votazione è privo di legittimazione all’impugnazione della delibera adottata dal CdA. Tuttavia, nel caso pervenuto all’esame della recente sentenza del Tribunale di Torino, il fondamento dell’impugnazione, da parte del consigliere “astenutosi”, non consisteva nella generica contrarietà a legge o statuto della deliberazione del CdA, ma nella violazione dell’art. 2391 c.c., in tema di interessi degli amministratori. In base a tale disposizione codicistica, l’amministratore deve dare notizia agli altri amministratori e al collegio sindacale di ogni interesse che, per conto proprio o di terzi, abbia in una determinata operazione della società, precisandone la natura, i termini, l’origine e la portata. Nei casi di inosservanza a quanto evidenziato, ovvero nel caso di deliberazioni del consiglio o del comitato esecutivo adottate con il voto determinante dell’amministratore interessato, le deliberazioni medesime, qualora possano recare danno alla società, possono essere impugnate dagli amministratori e dal collegio sindacale entro novanta giorni dalla loro data; l’impugnazione non può però essere proposta da chi abbia “consentito con il proprio voto” alla deliberazione, purché siano stati adempiuti gli obblighi di informazione previsti. In pratica, occorre rilevare che né gli amministratori assenti, né quelli dissenzienti, né quelli astenuti “consentono” alla deliberazione, per cui, indipendentemente dall’assolvimento dell’onere informativo da parte dell’amministratore interessato, sono legittimati all’impugnazione. Inoltre, nel momento in cui l’onere informativo non risulti adeguatamente assolto da parte di quest’ultimo, la legittimazione all’impugnativa va a ricomprendere anche gli amministratori che abbiano “consentito” “con il proprio voto” alla deliberazione.
RESPONSABILITA’ EX D.LGS. 231/2001:
La responsabilità 231 dell’ente permane anche in caso di interesse solo concorrente
L’art. 5 del D. Lgs. 231/2001 prevede che l’ente è responsabile quando il reato è stato commesso nel suo interesse o vantaggio, precisando tuttavia che la responsabilità cessa ove il fatto sia stato commesso nell’esclusivo interesse della persona fisica agente o di terzi e cioè per un fine che non avvantaggia in alcun modo l’ente stesso. Sulla base di tali principi, la Corte di Cassazione, con una recente sentenza dello scorso giugno, ha riconosciuto la responsabilità esclusiva di una società per truffa ai danni dello Stato finalizzata ad ottenere un consistente finanziamento in assenza dei presupposti richiesti (ex art. 24 del DLgs. 231/2001). Secondo l’opinione degli ermellini, tale reato risultava commesso nell’interesse della persona giuridica che utilizzava tali risorse patrimoniali illegittimamente percepite per lo svolgimento della sua attività; diversa conclusione sarebbe, invece, emersa ove fosse stato dimostrato che il finanziamento illecito era stato immediatamente distratto a vantaggio esclusivo dei soci. In effetti, proprio utilizzando il profitto della truffa, era stato costruito l’impianto industriale in cui operava la società che ha iniziato la sua attività esclusivamente grazie all’ottenimento di quel finanziamento. La Cassazione ricorda che, in ogni caso, non risulta decisivo il concorrente interesse personale dei soci; difatti permane la responsabilità da reato dell’ente qualora la persona giuridica abbia avuto un interesse anche solo concorrente con quello dell’agente alla commissione del reato presupposto.
Valutazione sul Modello 231 anche in base alle competenze dei membri dell’OdV
Un’interessante sentenza del Tribunale di Viterbo offre importanti riflessioni sulla figura e sul ruolo dell’OdV. In primo luogo, va segnalato come il giudice fondi la sua valutazione sul Modello Organizzativo adottato anche in base al ruolo e alle capacità dei componenti dell’organismo di vigilanza. A riguardo, il giudizio sull’operato dell’OdV non viene svolto in astratto ed in generale, ma consultando la documentazione (verbali delle riunioni, relazioni annuali nei confronti del consiglio di amministrazione ecc.); si evidenzia pertanto l’importanza, per i componenti dell’organismo in parola, di documentare adeguatamente le loro attività. In secondo luogo, il Tribunale ha verificato, con esito positivo, l’esistenza di adeguati flussi informativi tra l’OdV e le figure aziendali. Inoltre, si rileva che tali flussi informativi devono essere – oltre che periodici – anche inerenti gli specifici fattori di rischio che possono coinvolgere l’impresa. Infine, la sentenza riconosce adeguata e assoluta rilevanza alla disponibilità in capo all’Organismo di Vigilanza di un adeguato budget per lo svolgimento dei propri compiti, in particolare per l’effettuazione di controlli e verifiche “a sorpresa” ovvero l’effettuazione di controlli la cui gestione è rimessa interamente ed unicamente all’OdV che di conseguenza, anche per garantirne la segretezza, deve sostenerne i costi, senza dover rivolgersi proprie strutture dell’azienda.
Responsabilità dell’ente: infortunio sul lavoro e requisito del “vantaggio”
La Suprema Corte, con una sentenza dello scorso giugno, ha chiarito i criteri per accertare la sussistenza del requisito dell’interesse e/o del vantaggio dell’ente nel caso di verificazione di reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica. A riguardo, i giudici di legittimità specificano che l’ente non è responsabile per l’incidente subito dal lavoratore qualora la violazione delle norme anti-infortunistiche sia il risultato di una sottovalutazione del rischio, ma a cui non corrisponda l’intenzione di risparmiare sui costi, massimizzandone i profitti. In particolare, quanto alla valutazione della sussistenza del requisito dell’interesse, ricorre qualora la persona fisica, pur non volendo la verificazione dell’evento morte o lesioni del lavoratore, compia una scelta finalisticamente orientata ad un risparmio di spesa. Di converso, il requisito della valutazione della sussistenza del vantaggio, ricorre quando la persona fisica, agendo per conto dell’ente, ha sistematicamente violato le norme prevenzionistiche, e, dunque, realizzato una politica d’impresa disattenta alla materia della sicurezza del lavoro, al fine di ottenere un consistente contenimento della spesa con corrispondente massimizzazione del profitto o della produzione.
TRIBUTARIO:
Finanziamento soci, l’enunciazione non rimette nei termini il Fisco
Con una recente ordinanza la Corte di Cassazione – nello specifico caso di un contratto di finanziamento soci enunciato nel contesto di un atto di scissione – ha statuito che la tassazione dell’enunciazione non può essere effettuata dopo il decorso di cinque anni dalla data in cui l’atto enunciato avrebbe dovuto esser registrato in termine fisso oppure, se si tratti dell’enunciazione di un atto da sottoporre a registrazione solo in «caso d’uso», dalla data in cui si è verificato il caso d’uso. La Cassazione sviluppa il suo ragionamento osservando che l’articolo 76 Dpr 131/1986 stabilisce la decadenza dell’amministratore dal potere di pretendere il pagamento dell’imposta di registro con il decorso del quinto anno successivo: (i) per gli atti non registrati, alla data entro la quale la registrazione avrebbe dovuto essere effettuata; (ii) per gli atti soggetti a registrazione in caso d’uso, alla data nella quale è avvenuto il deposito che concreta la verificazione del caso d’uso. Da questa premessa viene disceso che, essendo il finanziamento soci un contratto da registrare in termine fisso, allora l’Amministrazione non può pretenderne la tassazione per enunciazione dopo un quinquennio dalla data entro la quale il finanziamento soci avrebbe dovuto essere registrato. In altre parole, l’enunciazione di un contratto non registrato non vale a rimettere in termini” l’Amministrazione, né l’enunciazione è qualificabile come “caso d’uso”.
Errori in dichiarazione sempre deducibili in contenzioso
Con una recentissima ordinanza la Cassazione ha statuito che al contribuente è sempre data la possibilità di opporsi in sede contenziosa alla pretesa dell’amministrazione finanziaria, allegando errori – sia di fatto che di diritto – commessi nella redazione della dichiarazione, incidenti sull’obbligazione tributaria. Si tratta di un principio che risulta ora codificato nell’ordinamento tributario attraverso l’articolo 2, comma 8-bis, del Dpr 322/1998, il quale dispone che «resta ferma in ogni caso per il contribuente la possibilità di far valere, anche in sede di accertamento o di giudizio, eventuali errori, di fatto o di diritto, che abbiano inciso sull’obbligazione tributaria, determinando l’indicazione di un maggiore imponibile, di un maggiore debito d’imposta o, comunque, di un minore credito». In sostanza, viene stabilito che il contribuente – a prescindere dalla presentazione di una dichiarazione integrativa a proprio favore – può fare valere anche nell’ambito del processo tributario errori o omissioni (a suo favore) commessi nella dichiarazione originaria. Occorre precisare tuttavia che questa norma, per quanto apparentemente cristallina, spesso viene dimenticata dai giudici, i quali oppongono il mero dato formalistico della singola norma di legge.
LDP rimane a vostra disposizione per qualsiasi ulteriore informazione o approfondimento degli argomenti sopra trattati.