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NEWSLETTER LEGAL N. 1 GIUGNO 2021

by LDP | Jun 3, 2021 | newsletter

FOCUS Covid-19: Finanziamenti assistiti dallo Stato pari all’80 %

 

 

 

Il D.L. 73/2021 (cd. “Decreto sostegni bis”), pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 25/05/2021, introduce un nuovo strumento di garanzia pubblica di portafoglio attraverso il Fondo Centrale PMI che mira a sostenere le imprese (PMI e Mid-cap) nella fase di ripartenza connessa all’uscita dall’emergenza sanitaria, fornendo loro l’accesso a finanziamenti di medio-lungo termine. Tale strumento riguarda le imprese con un numero di dipendenti non superiore a 499, che saranno ammesse alla garanzia senza valutazione economico-finanziaria da parte del Gestore del Fondo. I finanziamenti in questione hanno una durata non inferiore a 6 anni e non superiore a 15 anni e devono essere finalizzati per almeno il 60% a progetti di ricerca, sviluppo, innovazione o a programmi di investimento. La scelta di una percentuale di garanzia all’80% consente, oltre ad un adeguato allineamento di interessi tra Stato garante e soggetto finanziatore obbligato a mantenere una quota di rischio apprezzabile, anche un’operatività della misura fuori dal Quadro temporaneo sugli aiuti di Stato per l’emergenza Covid-19 della Commissione europea (19 marzo 2020), non soggetta quindi agli specifici limiti temporali di durata.

 

 

 

CORPORATE: annullabile il contratto se concluso dall’amministratore in conflitto di interessi

 

 

 

Una recente sentenza del Tribunale di Torino si è soffermata sulla disciplina dettata dall’art. 2475 ter comma 1 c.c., ai sensi del quale i contratti conclusi dagli amministratori di S.r.l. che hanno la rappresentanza della società in conflitto di interessi con la medesima – per conto proprio o di terzi – possono essere annullati su domanda della predetta, se il conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo. Il Tribunale, richiamandosi ad illustri precedenti di merito e di legittimità, specifica che l’esistenza di un conflitto di interessi deve essere accertata “in concreto”, con riferimento al singolo atto o negozio che, per le sue intrinseche caratteristiche, consenta la creazione di un utile per un soggetto con sacrificio per l’altro. Infatti, ai fini dell’annullamento del contratto, la società è tenuta a provare, in primo luogo, che l’amministratore, in relazione alla determinata operazione, sia stato portatore di un interesse la cui realizzazione era incompatibile con l’interesse della società (e, quindi, potenzialmente dannoso) e, successivamente, che il terzo conoscesse o avrebbe potuto conoscere il conflitto al momento della conclusione del contratto.

 

 

 

Anche il socio può essere dipendente di una società di capitali

 

 

Con una recentissima ordinanza la Corte Cassazione è tornata sul tema della compatibilità tra la posizione di socio/amministratore e quella di lavoratore subordinato di una società di capitali. A riguardo, la decisione rileva che, così come non sussiste alcuna incompatibilità di principio tra la qualità di componente (non unico) dell’organo di gestione e quella di lavoratore subordinato, allo stesso modo non vi sono ostacoli alla configurabilità di tale rapporto fra la società ed il socio titolare della maggioranza del capitale sociale. Ciò neppure quando la percentuale del capitale detenuto corrisponda a quella minima prevista per la validità delle deliberazioni dell’assemblea, attesa la sostanziale estraneità dell’organo assembleare all’esercizio del potere gestorio – ferma restando, comunque, la non configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato quando il socio abbia di fatto assunto l’effettiva ed esclusiva titolarità dei poteri di gestione. La qualità di socio, anche “maggioritario”, di una società di capitali, quindi, non è di per sé di ostacolo alla sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra socio e società, allorché possa in concreto ravvisarsi il vincolo di subordinazione, almeno potenziale, tra il socio medesimo e l’organo gestorio.

 

 

 

M&A: Cessioni di partecipazioni: legittimo il prezzo simbolico o incrementale

 

 

Secondo la recente sentenza del Tribunale di Roma, in presenza di aziende in perdita, è possibile concludere contratti aventi ad oggetto il trasferimento di partecipazioni societarie a prezzo simbolico senza che gli stessi siano necessariamente ricondotti a donazioni. L’assenza di un reale corrispettivo, quindi, non implica di dover necessariamente qualificare il negozio quale atto di liberalità, in quanto, nell’ambito di tali operazioni, il cedente, attraverso detto atto (pur non ricevendo un corrispettivo), consegue la realizzazione di un proprio interesse giuridico, tra cui la liberazione dai debiti aziendali. Parimenti, si ritiene valido il contratto di cessione di una partecipazione sociale che preveda un corrispettivo in origine simbolico ma incrementabile al ricorrere di determinate condizioni (c.d. clausola di earn out). La necessità di tali clausole, nella pratica, è da individuarsi non tanto nel disaccordo tra le parti sulla determinazione del prezzo, ma nella necessità di aggiornare i dati economico/patrimoniali sui quali il compratore ha basato la propria valorizzazione della partecipazione.

 

 

 

RESPONSABILITA’ EX D.LGS. 231/2001: Ruolo e compiti dell’OdV

 

 

Il Tribunale di Milano, con la sentenza resa nell’ambito della nota vicenda dei “Derivati MPS”, fornisce un’approfondita disamina sul ruolo e i compiti dell’OdV. Secondo l’orientamento del Tribunale milanese, l’OdV svolge il duplice ruolo di controllo del sistema di compliance e di organo di controllo preventivo e repressivo dei reati presupposto commessi dall’ente. L’attività di vigilanza dell’OdV si sostanzia dunque in una serie di verifiche sul Modello, svolgendo altresì attività di supporto alla valutazione dei rischi da reato in termini di probabilità di manifestazione e di impatto sulla gestione aziendale, nonché di supporto all’identificazione delle misure più adatte per accertare, mitigare, trasferire ed evitare soprattutto potenziali rischi. Si tratta, in via definitiva, di un monitoraggio costante sull’adeguatezza complessiva del Modello. Nel caso di specie il Tribunale ha concluso che un controllo attento dell’OdV avrebbe certamente scongiurato la reiterazione dei reati che indisturbatamente si perpetravano, rilevando che invece l’OdV era rimasto inerte essendosi limitato a prendere atto di quanto avveniva.

 

 

 

TRIBUTARIO: IMessage e WhatsApp non utilizzabili nel processo tributario

 

 

Secondo l’orientamento della Commissione Provinciale Tributaria di Reggio Emilia, i messaggi inviati con iMessage, così come tramite WhatsApp, non possono costituire fonte di prova in sede tributaria in quanto – in mancanza della possibilità di procedere ad un’estrazione controllata e certificata – non può esserne valutata la genuinità. Viene, in particolare, evidenziato come, per quanto attiene alla tipologia della messagistica “istant messaging System”, come iMessagge e WhatsApp, “l’archiviazione degli stessi avvenga esclusivamente sul singolo dispositivo telefonico senza lasciare alcuna traccia a differenza dei comuni messaggi sms, la cui archiviazione avviene attraverso la loro memorizzazione da parte delle compagnie telefoniche”. L’unica possibilità di ingresso nel processo tributario è dunque mediante la previa acquisizione nel processo penale tramite la modalità del sequestro ex art. 234 c.p.c., già riconosciuta come pienamente valida ed operante dalla Corte di Cassazione.

 

 

 

Prescrizione quinquennale per i diritti camerali

 

 

Con una recentissima ordinanza la Cassazione ha statuito che il diritto camerale e le relative sanzioni si prescrivono in cinque e non in dieci anni.

I giudici pervengono all’indicata conclusione sulla base di due argomentazioni: (i) da un lato si rileva che il diritto camerale è assimilabile ai tributi aventi cadenza periodica, configurandosi alla stregua di un’obbligazione periodica o di durata, per i quali trova applicazione l’art. 2948 n. 4 c.c., ovvero la prescrizione quinquennale; (ii) dall’altro, posto che il termine di prescrizione delle sanzioni tributarie, ai sensi dell’art. 20 del D.Lgs. 472/97, è di cinque anni e considerato altresì che il termine di prescrizione deve essere unitario, anche il diritto camerale non può che soggiacere ai cinque anni. Il principio, nei termini così esposti, ha allora portata dirompente: tutti i tributi, di qualsiasi natura e specie, hanno come termine di prescrizione quello dei cinque anni, salvo si sia formato il giudicato (nel qual caso ogni termine si converte in decennale ex art. 2953 c.c.). Il tema non è però pacifico: attualmente la giurisprudenza prevalente sembra optare per l’orientamento opposto. Occorrerà quindi attendere l’evolversi delle pronunce.

 

 

 

LDP rimane a vostra disposizione per qualsiasi ulteriore informazione o approfondimento degli argomenti sopra trattati.

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