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Il datore di lavoro risponde anche in caso di ambiente di lavoro stressogeno

La Corte di Cassazione, recentemente, si è espressa con diverse pronunce in merito alla tutela della salute psico-fisica dei lavoratori e annessa responsabilità del datore di lavoro.

Secondo la Cassazione, espressasi con due recenti pronunce del 19 gennaio e 16 febbraio 2024, si delineerebbe una responsabilità del datore di lavoro non solo in presenza di comportamenti tanto gravi da integrare il “mobbing” che si configura come una condotta sistematica e protratta nel tempo che, per le sue caratteristiche vessatorie, comporta una lesione all’integrità psico – fisica e alla personalità morale del lavoratore (nello stesso senso, Cass. n. 7641/2022 e Cass. n. 12473/2018) ma anche semplicemente qualora il datore di lavoro adotti comportamenti atti a creare condizioni di lavoro stressogene o non pone in essere misure per evitarlo.

Con la pronuncia n. 2084 del 19 gennaio 2024, in particolare, la Cassazione ha affermato che “la tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore non ammette sconti, in ragione di fattori quali l’ineluttabilità, la fatalità, la fattibilità economica e produttiva, nella predisposizione di condizioni ambientali sicure”.

Sulla base di tale assunto, secondo la Corte della pronuncia di cui sopra, il datore di lavoro ha l’onere di astenersi da iniziative, scelte o comportamenti che possano ledere, in qualche modo, la personalità morale del datore di lavoro. E, in tal senso, si delinea una sua responsabilità laddove, anche “colposamente”, adotti condizioni di lavoro stressogene, fonte di danno alla salute dei lavoratori, o non rispettose di una progettazione del lavoro sicura per i lavoratori, anche in assenza di atti qualificabili come “mobbing

La Corte, riprendendo dei propri precedenti, evidenzia in tale pronuncia come si delinei la responsabilità del datore di lavoro laddove questi consenta il mantenimento di un ambiente di lavoro stressogeno, fonte di danno alla salute dei lavoratori.

Ciò che rileva, “al di là della tassonomia e della qualificazione come mobbing e straining” (..), è che il fatto commesso, anche isolatamente, sia un fatto illecito ex art. 2087 cod. civ. da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell’ordinamento, ovvero la sua integrità psicofisica, la dignità, l’identità personale, la partecipazione alla vita sociale e politica

Nello stesso senso, con la recente ordinanza n. 4279 del 16 febbraio 2024, la Cassazione ha rilevato che laddove si riscontri l’assenza degli elementi del “mobbing” – che come sopra detto, si configura come una condotta sistematica e protratta nel tempo che, per le sue caratteristiche vessatorie, comporta una lesione all’integrità psico – fisica e alla personalità morale del lavoratore – è necessario valutare e accertare l’eventuale responsabilità del datore di lavoro per avere, anche involontariamente, omesso di impedire che un ambiente di lavoro “stressogeno” provocasse un danno alla salute dei propri lavoratori, ciò anche semplicemente con riferimento ad un clima lavorativo teso e caratterizzato da reciproche incomprensioni.

In generale, secondo la Cassazione n. 4279 del 16 febbraio 2024, il datore di lavoro non deve porre in essere dei comportamenti tali da indurre disagi e provocare stress ai dipendenti.

Il datore di lavoro, in base alla previsione di cui all’art. 2087 c.c., ha un generale obbligo di protezione dei lavoratori; essendoil garante dell’incolumità psico-fisica di questi ultimi e, a tal proposito, dovendo adottare tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori.

Stando alla pronuncia della Suprema Corte n. 4279 del 16 febbraio 2024, in tali misure rientrerebbero anche la rimozione di un clima lavorativo teso e caratterizzato da reciproche incomprensioni.

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