La sentenza della Corte di Cassazione dello scorso giugno è tornata ad occuparsi dell’attività di direzione e coordinamento ex art. 2497 c.c., statuendo che alla stessa si applica il criterio della Business Judgement Rule (BJR).
Nel caso all’esame degli Ermellini un’Amministrazione Statale – in qualità di socio di maggioranza – era stata condannata a risarcire il danno cagionato a due soci di minoranza per la perdita di valore dei titoli azionari di nota S.p.A.; in particolare, i ricorrenti affermavano che la predetta Amministrazione “aveva sostenuto” la linea del programma gestionale degli amministratori, approvando il bilancio di esercizio “in assenza di fattibilità di un piano industriale“. Si trattava dunque di stabilire sia se l’esercizio del diritto di voto nell’assemblea della società controllata, e nella specie il voto di approvazione del bilancio di esercizio, integri “ex se” il presupposto di insorgenza della responsabilità della predetta Amministrazione statale nei confronti degli altri soci di minoranza – in quanto autonomo soggetto giuridico collocato in posizione dominante rispetto alla società partecipata -, ed altresì se tramite tale voto deliberativo la resistente avesse effettivamente svolto in modo abusivo l’attività di “direzione e coordinamento”. Sul punto, la Cassazione ha rilevato in primo luogo che, anche qualora si intendesse individuare nell’approvazione in assemblea del bilancio di esercizio da parte del socio di maggioranza un “atto di direzione”, ai fini dell’affermazione della responsabilità ex art. 2497 c.c. è necessaria la sussistenza dell’elemento costitutivo della disformità delle scelte di indirizzo e coordinamento rispetto a quelle che, nella situazione concreta, avrebbero potuto e dovuto essere assunte secondo i sani criteri della gestione economico-aziendale. A tal riguardo, resta dunque da chiarire con quali criteri tale “disformità” debba essere valutata.
La Corte, nell’affrontare la questione, specifica che non è possibile ridurre l’intervento legislativo sulla responsabilità ex art. 2497 c.c. ad una mera trasposizione normativa della preesistente fattispecie illecita dell’“abuso del diritto di voto” da parte del socio di maggioranza.
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Infatti, l’art. 2497 c.c. ha delineato la tipologia funzionale dell’attività di direzione e coordinamento con riguardo ad un assetto di relazioni intersoggettive complesse, facendo leva su tre elementi:
- lo scopo operativo dell’ente sovraordinato, che persegue la cura dell’interesse dell’intero gruppo (e cioè la creazione di nuovo valore economico e patrimoniale attraverso l’organizzazione di un sistema di imprese, che non si sarebbe potuto raggiungere individualmente);
- un modello di relazioni strutturali-organizzative che, seppur indefinibile a priori, si caratterizza per il collocare l’“attività direttiva e di coordinamento” a un livello decisionale necessariamente sovraordinato rispetto alla realizzazione dell’“interesse sociale” proprio di ciascuna società eterodiretta, e si esterna, pertanto, in interventi volti ad evitare possibili conflitti o sovrapposizioni tra le attività imprenditoriali e le scelte commerciali delle singole società, nonché ad indicare le sinergie necessarie a perseguire più ambiziosi obiettivi di mercato;
- rileva, infine, il carattere continuativo dell’ingerenza nelle scelte e nelle modalità organizzative delle singole partecipate, dovendosi trattare di un potere di indirizzo costante ed effettivo, che non può esaurirsi nel mero condizionamento di un singolo atto di gestione della società partecipata o eterodiretta, o in forme di ingerenza meramente occasionali, né può ridursi alla mera amministrazione della partecipazione di maggioranza attraverso l’espressione del voto in assemblea.
A riguardo – osserva la Suprema Corte – considerato che manca una definizione normativa dei “principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale” di cui all’art. 2497 comma 1 c.c., non possono che considerarsi applicabili le buone tecniche di gestione dell’impresa sintetizzate nel criterio della Business Judgement Rule (cfr. Cass. n. 15470/2017), mediante il quale è dato individuare i limiti oltre i quali la “scelta gestionale” compiuta dall’amministratore non può ritenersi conforme alla misura della diligenza richiesta, avuto riguardo alle circostanze conosciute o conoscibili. Tali limiti vanno individuati nell’”irragionevolezza” dell’operazione economica (pregiudizievole per la società), tale da ritenersi “del tutto illogica” o compiuta “in assenza delle normali cautele” ed “in mancanza della verifica delle necessarie informazioni” normalmente richieste per una scelta imprenditoriale di quel tipo, nonché, in generale, nella “mancanza di diligenza” mostrata dall’amministratore nell’apprezzare preventivamente e approfonditamente i “margini di rischio” connessi all’operazione da intraprendere.
Sul punto, se la giurisprudenza sopra richiamata si riferisce propriamente agli “atti di gestione” riservati alla competenza dell’amministratore, quale organo esecutivo della società, non pare tuttavia dubitabile – osserva la Corte – che i predetti criteri debbano trovare applicazione, per analogia – in virtù del “continuum” che viene ad istituirsi tra l’esercizio dei poteri di “direzione e coordinamento” degli amministratori della capogruppo e dei poteri di gestione degli amministratori delle singole controllate – anche alla verifica del grado di “correttezza” dell’attività direttiva svolta ex art. 2497 c.c..
Sulla base di tutte le riflessioni di cui sopra la Corte, nel caso in oggetto, ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso proposto non essendo stata fornita dai ricorrenti alcuna indicazione od elemento volto a provare l’inosservanza da parte del socio di maggioranza dei corretti criteri gestionali, interpretati alla luce della Business Judgement Rule.