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Il c.d. “collegamento funzionale” nel regime degli impatriati e i remote worker

by Giovanni Barone | Mar 3, 2022 | Blog

Il regime speciale per i cosiddetti lavoratori impatriati, introdotto dall’art. 16 del D. Lgs. 147/2015 e modificato dal c.d. Decreto Crescita, è un regime di vantaggio che mira ad attirare in Italia lavoratori con l’obiettivo di far contribuire questi ultimi alla crescita economica, finanziaria e culturale del Paese. Uno dei requisiti richiesti ai fini dell’applicazione del regime è l’esistenza di un collegamento funzionale tra l’inizio dell’attività lavorativa in Italia ed il trasferimento del lavoratore.

Tale condizione – non richiesta dal D. Lgs. 147/2015 – è stata esplicitata nella circolare dell’Agenzia delle Entrate N. 17/E del 2017, la quale lo ha previsto nell’ambito dell’interpretazione della norma.

La sua esistenza come condizione da rispettare per poter accedere ai benefici del regime degli impatriati è stata prevista anche da diverse risoluzioni succedutesi nel corso degli anni, nonché ribadita dalla circolare dell’Agenzia delle Entrate N. 33/E del 2020, la quale ha fornito chiarimenti sull’applicazione del regime degli impatriati dopo le modifiche introdotte dal Decreto Crescita, il quale ha notevolmente semplificato le condizioni di accesso al regime.

In conseguenza delle modifiche effettuate dal Legislatore, non è più previsto che l’impatriato svolga la sua attività lavorativa presso un’impresa residente nel territorio italiano e la circolare N. 33/E del 2020 ha chiarito che possono accedere al regime, al verificarsi delle condizioni generali previste, anche i soggetti che vengono a svolgere in Italia un’attività lavorativa per conto di un datore di lavoro estero, non residente in Italia.

Tale possibilità è stata confermata da recenti risposte dell’Agenzia delle Entrate, da ultima, la risposta N. 55 del 31/01/2022 riguardante un cittadino italiano, iscritto all’AIRE dal 2012 e residente in un Paese dell’UE a partire dal 2018, anno in cui ha sottoscritto un rapporto di lavoro con una società locale estera.

Successivamente, il lavoratore ha manifestato al proprio datore di lavoro (estero) “la volontà di trasferirsi a gennaio 2022 nuovamente in Italia, mantenendo il rapporto di lavoro dipendente, ed ottenendo l’autorizzazione a svolgere la propria prestazione lavorativa in smart working da tale Stato per le annualità a venire”.

L’Agenzia delle Entrate ha accordato a tale soggetto la possibilità di usufruire del regime degli impatriati.

 

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In una tale circostanza, tralasciando l’analisi sul fronte corporate (i.e. rischio di stabile organizzazione), non si configura né un distacco né una trasferta e non vi è dubbio che i contributi previdenziali siano dovuti in Italia.

Inoltre, ci si dovrà domandare quale legge applicare alla regolamentazione del rapporto di lavoro.

Ferma restando la volontà delle parti, poiché la prestazione lavorativa viene svolta nel territorio dello Stato, resta da chiedersi se la normativa italiana debba “prevalere” su quella estera sottintesa al mantenimento del rapporto di lavoro dipendente, tenendo conto che le leggi italiane in materia potrebbero essere più favorevoli per il lavoratore rispetto alle leggi estere.

In questo contesto, quindi, gli aspetti da analizzare risultano molteplici.

Da un punto di vista puramente fiscale, sorge il dubbio ed il relativo conflitto tra le interpretazioni fornite dall’Agenzia delle Entrate: se da un lato il collegamento funzionale tra trasferimento ed inizio dell’attività lavorativa è ancora richiesto, dall’altro, nel caso di lavoro da remoto, sembra valga la semplice volontà del lavoratore di trasferirsi ad assicurare – insieme all’esistenza delle altre condizioni – l’applicazione del regime.

Una maggiore chiarezza da parte dell’Agenzia delle Entrate sarebbe quindi richiesta.

 

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