Antieconomicità e contestazioni del Fisco

da Alberto Allegra | Giu 8, 2021 | Blog

La recente sentenza della Corte di Cassazione n. 11932/2021 offre lo spunto per soffermarsi brevemente sul concetto di “antieconomicità” delle scelte imprenditoriali; tale tipo di contestazione permette all’Agenzia delle Entrate di (i) negare la deducibilità fiscale di quelle spese giudicate contrarie alla logica imprenditoriale (perché ritenute “non inerenti”), oppure (ii) di ricostruire il reddito imponibile sulla base di presunzioni, quando l’incongruità afferisca lo svolgimento dell’intera attività di impresa. È onere del contribuente provare che il comportamento antieconomico sia giustificato da ragioni diverse dall’elusione o evasione di imposta.

La Suprema Corte, nel ribadire il proprio consolidato orientamento, ha riconosciuto che “l’amministrazione può procedere al disconoscimento dei costi anche a causa della loro eccessività, cioè per il carattere antieconomico della spesa, imponendo così al contribuente di provare a giustificare quest’ultima, secondo il meccanismo analitico induttivo […]; quindi, da tale prospettiva, l’insindacabilità delle scelte imprenditoriali, che nessuno mette in discussione, non può certo servire a sollevare il contribuente dal dovere di chiarire le ragioni economiche di una scelta altrimenti incomprensibile, a cagione di una apparentemente totale assenza di inerenza dell’impegno economico rispetto all’importanza dell’azienda”.

 

In cosa consiste un comportamento di antieconomicità?

Fondamentalmente, un comportamento antieconomico si caratterizza per essere irragionevole e non congruo rispetto all’attività di impresa, all’entità del costo sostenuto, alla tipologia di spesa, di controparte selezionata, etc.; questa discordanza lascia presumere che dietro tale condotta, sebbene formalmente inappuntabile (ad esempio, perché le fatture passive si trovano registrate puntualmente ed i pagamenti sono dimostrati dalle contabili bancarie), possano celarsi fenomeni di elusione o di evasione.

A titolo esemplificativo, la Giurisprudenza, ha qualificato le seguenti condotte come antieconomiche:

  1. il sostenimento di spese, per beni gratuitamente devolvibili alla clientela (opuscoli informativi), per un ammontare “enorme”, pari a circa il 13% dell’intero ammontare dei ricavi annui, peraltro ad un costo unitario altrettanto spropositato e senza produrre alcuno “studio o un piano industriale da cui potesse emergere l’utilità in futuro dell’acquisto degli opuscoli” (Cass. Civ. sent. n. 2224/2021);
  2. il ricorso a finanziamenti di ammontare così elevato da comportare perdite di esercizio, tali da far ritenere antieconomica la gestione aziendale (Comm. Trib. Reg. Lazio sent. n. 534/2021);
  3. la presenza di perdite rilevanti per quattro esercizi consecutivi, senza che la contribuente avesse fornito le ragioni che avevano inciso negativamente sulla propria attività, causando una gestione antieconomica ma limitandosi, invece, ad elencare i costi sostenuti (così Cass. Civ. ord. n. 1282/2021);
  4. l’uso di percentuali di ricarico inferiori alla media del settore unita ad una persistente perdita di esercizio negli anni di riferimento, da un reddito di esercizio negativo e non idoneo a remunerare il lavoro dei soci, da un elevatissimo costo del lavoro, peraltro progressivamente aumentato in modo inversamente proporzionale al trend degli utili, tendente al ribasso (così Cass. Civ. ord. n. 22185/2020);
  5. lo spropositato divario esistente tra la percentuale di ricarico applicata dalla società contribuente (3.3%) e quella applicata dall’Ufficio (20%); in tal caso l’antieconomicità della condotta è stata dedotta da un unico elemento presuntivo, purché preciso e grave (Cass. Civ. ord. n. 20068/2020);
  6. la presenza di utili di esercizio irrisori per 5 annualità consecutive accompagnati ad un ricarico sulle vendite pari ad un quinto di quello normalmente applicato, ma contestuale apertura di ben sei punti vendita in zone prestigiose della città di Roma (Cass. Civ. sent. n. 9901/2020);
  7. una evidente sproporzione tra risultato economico dell’impresa e costo dei fattori produttivi (lavoro dipendente), non potendo giustificare la conduzione dell’attività in pareggio per motivi estranei allo svolgimento di un’impresa (Cass. Civ. ord. n. 8925/2020).

 

Effetti sull’accertamento

Se l’Ufficio qualifica una condotta come “antieconomica” (nei termini indicati sopra) può procedere a rideterminare il reddito imponibile del contribuente attraverso un accertamento induttivo, ossia basato su presunzioni e senza necessità di fornire prove “certe” di una effettiva e conclamata evasione d’imposta.

L’assunto di partenza è che l’imprenditore tende a massimizzare il proprio profitto: comportamenti chiaramente antieconomici (ed in aperto contrasto con questo principio) consentono all’Ufficio di presumere l’esistenza di costi fittiziamente gonfiati o maggiori ricavi occultati. Per sorreggere l’accertamento, il quadro indiziario può essere fondato anche solo su presunzioni semplici purché siano gravi precise e concordanti.

 

Onere della prova sul contribuente

Per difendersi da tali accertamenti il contribuente deve provare le ragioni per cui ha realizzato il comportamento apparentemente antieconomico, dimostrando che esso non è l’effetto di violazioni tributarie sottostanti. Ad esempio,

  1. la vendita di immobili allo stato grezzo (anziché finiti) è stata considerata come una valida giustificazione del minor prezzo di cessione applicato e, quindi, della apparente antieconomicità di tali operazioni, idonea a precludere l’accertamento induttivo. (Cass. Civ. ord. n. 13839/2020);
  2. la dimostrazione di ingenti spese (ad utilità pluriennale) di ricerca, sviluppo e pubblicità, che avevano dato i loro frutti negli anni successivi a quelli di accertamento, ha sconfessato l’asserita antieconomicità degli esercizi chiusi in perdita negli anni oggetto di tali spese (Cass. Civ. ord. n. 14468/2015);
  3. la prova che la supervalutazione dei veicoli usati, ceduti in permuta dagli acquirenti dei nuovi veicoli, era diretta ad incentivare le vendite dei mezzi nuovi, giustificando così la antieconomicità della supervalutazione, che era applicata in luogo di uno sconto diretto (Cass. Civ. n. 14468/2015).

In tale situazione, le scritture contabili, pur formalmente corrette, non sono di alcuna utilità; infatti, esse sono considerate inattendibili proprio perché danno atto di un contrasto con i criteri di ragionevolezza e logicità imprenditoriale, a causa dell’antieconomicità del comportamento del contribuente.

 

Conclusioni sul tema dell’antieconomicità

In un sistema tributario che agevola l’Ufficio nella formazione della prova e nella emissione di avvisi di accertamento fondati su presunzioni, è assolutamente opportuno che il contribuente tenga traccia delle ragioni che lo hanno spinto a compiere scelte, che appaiono non sorrette da una ferrea logica economica. Ciò può avvenire attraverso la conservazione di scambi di e-mail, verbali dei consigli di amministrazione specificamente tenuti, minute di riunioni straordinarie, studi strategici, piani industriali, etc.; infatti, come visto, la mera prova delle spese sostenute (fatture passive, contabili bancaria) non è sufficiente a tal fine. Solo in tal modo il contribuente potrà validamente opporre all’Agenzia i motivi delle proprie scelte e, a volte, del proprio insuccesso imprenditoriale.

 

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